Il presente articolo ha come tema l’acqua, l’elemento principale del mondo vegetale e animale. Tralasciamo volutamente le osservazioni di carattere più strettamente ecologico, o legate ai cambiamenti climatici, per porre l’accento su questioni non sempre portate all’attenzione: la privatizzazione del settore idrico, l’intervento dei grandi gruppi finanziari e la mercificazione dell’acqua. Tali fattori, sempre più attivi negli ultimi decenni, hanno fatto dell’acqua il paradigma della diseguaglianza.
Il nostro pianeta è impropriamente denominato Terra. Il termine più corretto dovrebbe essere Acqua, considerato che questa copre il 71% del globo. Tuttavia una minima parte è direttamente usufruibile dall’umano. Il 2,5% è acqua dolce, e solo lo 0,3% è localizzata in bacini idrici, laghi o fiumi, ovvero di pronto utilizzo per le attività umane. Oltretutto questa residuale quota d’acqua dolce è dislocata, per quasi la metà, in solo 5 paesi Brasile, Cina, Canada, USA e Russia. La “diseguaglianza” dell’acqua coinvolge diversi aspetti: le riserve d’acqua, i consumi, l’incremento demografico, la distribuzione della popolazione e l’urbanizzazione, la finanziarizzazione, la privatizzazione dell’acqua, e l’avvento del mercato delle acque minerali in bottiglia. Le riserve d’acqua sono distribuite in modo asimmetrico. Dai 30mila litri annui a persona in Canada si passa in alcune zone dell’Africa (specie nella parte orientale) i 3mila litri. Riguardo al consumo d’acqua (decuplicato nell’arco dell’ultimo secolo) le disparità sono evidenti, si passa infatti dai 425 litri al giorno per abitante negli USA ai 10 litri giornalieri nel Madagascar.
Sono tre i fattori, in correlazione tra loro, che hanno spinto e spingono sempre più, a livelli mai conosciuti prima, l’utilizzo idrico: l’espansione demografica, l’urbanizzazione e la crescente produzione e consumo d’energia. La popolazione mondiale nei primi anni cinquanta del secolo scorso ammontava a 2,5 miliardi, oggi si è raggiunta la soglia dei 7,3 miliardi. La curva demografica si associa a due fenomeni: l’ineguale distribuzione della popolazione e l’urbanizzazione. I 4/5 della popolazione vive su un 1/5 delle terre emerse e oltre la metà della popolazione mondiale è concentrata in ambiti urbani. Negli ultimi cinquant’anni le/gli abitanti delle aree metropolitane sono passati da 740 milioni agli attuali 3,3 miliardi. L’urbanizzazione provoca inevitabilmente maggiori consumi energetici, che a loro volta trascinano inevitabili consumi dell’acqua.
Vi è un altro aspetto, spesso trascurato, ovvero il rapporto tra produzione energetica ed acqua. L’energia richiede acqua. Quella idroelettrica fornisce il 16% dell’elettricità mondiale, quella fossile e nucleare assorbe il 15% del totale dell’acqua estratta annualmente. Il digitale è il nuovo protagonista dei consumi. Il ciclo produttivo dei beni digitali, dalla fase di estrazione delle materie prime passando per la produzione dei semiconduttori, necessita di un massiccio impiego di risorse idriche. L’attività estrattiva è quella a più alta impronta idrica. Il 90% delle operazioni minerarie che riguardano le materie prime per le componenti del digitale impiegano tra i 340 e 6.270 litri per tonnellata di minerale. I “server” producono calore e devono essere costantemente raffreddati. Un data center di medie dimensioni ha un utilizzo idrico pari a quello di tre ospedali di piccole dimensioni. Il download di un singolo gigabyte ha un’impronta idrica fino a 200 litri d’acqua. Crescita demografica, urbanizzazione aumento delle merci e nuove modalità produttive hanno quindi determinato una spinta ai consumi generali ed in particolare di questo bene prezioso. Uno degli aspetti meno noti del consumo d’acqua è l’impronta idrica, ovvero la quota d’acqua incorporata nei prodotti, da quelli agricoli a quelli industriali. Il dato nazionale relativo a questo indice è del 25% superiore alla media europea e del 66% rispetto a quella globale, portando l’Italia ai primi posti nel consumo complessivo pro capite (impiego diretto e impronta idrica) dopo USA Canada e Australia. Nell’ambito dell’impronta idrica bisogna sottolineare un fattore decisivo, ovvero l’importazione d’acqua virtuale. Oltre il 50% dell’impronta idrica è di fatto importato mediante l’acqua incorporata nei prodotti, specie alimentari, proveniente dai paesi esportatori. I paesi che esportano quote maggiori di “acqua virtuale” sono India, Argentina, USA, Brasile, in Europa si distinguono Francia, Germania e Paesi Bassi, tutti paesi con buone disponibilità idriche. Il dato negativo si verifica nell’import di “acqua virtuale” da paesi con carenza idrica, come Spagna e Tunisia, aggravando la pressione sulle loro già limitate risorse. La privatizzazione e la successiva finanziarizzazione dell’acqua ha rappresentato un punto di svolta e di non ritorno nella diseguale disponibilità di questo elemento.
Nel XVIII secolo in Inghilterra e nelle colonie del Nord America si affermarono concetti che sono stati la radice della privatizzazione dell’acqua. Le risorse naturali si definirono “inerti”, ovvero materie che acquisiscono un valore solo se subiscono una trasformazione mediante il lavoro umano. Va da sé che chi “trasforma” ne diveniva il proprietario e soprattutto si utilizzò sempre più un termine, ormai d’uso comune: lo “sfruttamento” delle risorse naturali, definizione che dice molto del rapporto uomo natura. Da allora l’acqua, come la terra, con ciò che ne sta sotto o sopra, divenne merce. Le merci hanno una caratteristica comune, sono sostituibili e riproducibili. L’acqua per la sua “natura” non lo è (quantomeno l’attuale processo di desalinizzazione ha costi altissimi, oltre a rilevanti conseguenze inquinanti, per i quali solo pochi paesi la “trasformano”). Gli attori della privatizzazione sono le grandi istituzioni finanziarie; la banca Mondiale nel 2009 ha finanziato progetti idrici per 20 miliardi di dollari. Si sono formati organizzazioni internazionali per progettare e coordinare progetti per la gestione idrica, tra le quali il Consiglio Mondiale dell’Acqua e la Commissione Mondiale sull’Acqua. Significativo che all’inizio del secolo il presidente del Consiglio Mondiale dell’Acqua era nel contempo presidente e direttore generale del gruppo Société des Eaux de Marseille, proprietà di Suez e Veolia due dei maggiori gruppi mondiali nel settore delle acque minerali.
Una spinta ulteriore, da parte di istituzioni internazionali verso il settore privato, è data dagli accordi GATS (General Agreement on Trade in Services). Si tratta di una intesa nell’ambito dell’OMC (Organizzazione Mondiale per il Commercio). Obiettivo del GATS è duplice. Uno, più generale, liberalizzare il mercato dell’acqua, l’altro, come espressamente indicato dalla Commissione Europea, identificare gli ostacoli che impediscono alle multinazionali dell’acqua di entrare nei mercati nazionali. In sintesi, se in un dato paese la gestione idrica è già data in conduzione, in toto o in parte, a soggetti privati, ciascun paese aderente al GATS può chiedere ad altri di aprire anche a società private estere, al fine di incentivare la concorrenza e, nella logica liberista, rendere più efficiente il servizio. Risultato è che la Commissione Europea ha chiesto a 72 paesi di aprire la gestione dell’acqua a compagnie straniere, tra questi paesi la Bolivia, Bangladesh, Honduras, Paraguay e Tunisia. Il percorso della privatizzazione si è completato il 7 dicembre del 2020 con la quotazione dell’acqua alla borsa di Chicago. L’operazione ha avuto come protagonista Black Rock, uno dei maggiori fondi di investimento internazionale. Così “l’oro blu”, così come le più importanti materie prime soprattutto per quanto riguarda il cibo e la terra, è divenuto campo d’intervento per gli strumenti finanziari speculativi, tramite i “Water Futures”. Diversamente dagli altri futures, i water futures non si basano sulla disponibilità del bene, cioè non garantiscono la disponibilità di una data quantità d’acqua ad una data scadenza, ma si basano sull’indice dei prezzi dell’acqua, calcolato sulla media ponderata settimanale dei prezzi delle transazioni nei cinque principali bacini dello Stato di California. Facile dedurre che anche in questo caso si tratta di una scommessa su una futura scarsità dell’acqua, e sul conseguente aumento del prezzo, con uno scopo puramente speculativo.
L’ultimo decreto del governo Draghi sulla concorrenza mette definitivamente i paletti per indirizzare la gestione della “cosa pubblica” verso i privati. In sintesi l’ente locale che opta per una gestione in “autoproduzione” di un bene pubblico, come l’acqua, deve dare ragione sul piano economico dei costi del servizio, giustificando il mancato ricorso al “libero mercato”. In altre parole si chiede al gestore pubblico una sorveglianza sull’efficienza del servizio, ricordandogli che lo Stato effettuerà uno “stretto monitoraggio” per mantenere in equilibrio i conti della pubblica amministrazione. Va da sé che questa “efficienza” non è richiesta in alcun modo ai privati rendendo clamorosamente evidente la disparità delle scelte tra “autoproduzione” e privatizzazione dei servizi. Utile ricordare che gli “sforzi legislativi” vengono fatti solo nel consegnare o regalare i servizi di pubblica utilità ai privati, mentre nei decenni passati, specie per la gestione dell’acqua, nulla si è fatto per ottimizzare le infrastrutture. L’Italia preleva giornalmente dalle fonti 428 litri d’acqua per abitante, posizionandosi ai primi posti in Europa, ma nella realtà questo “primato” viene annullato dalle fatiscenti condizioni delle reti di distribuzione, considerato che il pro capite giornaliero effettivo è di 220 litri per abitante; quasi la metà dei flussi si “smarrisce” a causa della dispersione della rete.
Ultimo aspetto, alquanto significativo della svendita del bene pubblico acqua ai privati, è lo sviluppo del mercato delle acque minerali. Globalmente sono imbottigliati 387 miliardi di litri annui in un mercato in continua espansione. L’incremento dei consumi mondiali (+288% dal 2000 al 2019) sono derivati per il 74% dai consumi individuali piuttosto che dalla crescita demografica, segno di un successo commerciale e mediatico, quello di aver indotto un bisogno anche in paesi che hanno a disposizione buone risorse idriche. Le maggiori multinazionali del settore sono Veolia, che opera in 60 paesi, e Lyonnaise des eaux, del gruppo Suez Environnement, attiva in 120 paesi. Veolia è presente in molte partecipate pubbliche italiane della gestione idrica. L’Italia è il nono mercato mondiale con un livello di consumo molto elevato, 222 litri per abitante, secondo dopo il Messico. Sul territorio nazionale sono attive 307 concessioni per lo “sfruttamento” delle acque minerali; affidate a 202 concessionari che hanno prelevato acqua per 18miliardi di litri. San Pellegrino guida la classifica sopravanzando il Gruppo San Benedetto e Fonti di Vinadio. Caratteristica tutta italiana è la gratuità di fatto delle concessioni. A fronte di quasi 18miliardi di litri prelevati dai concessionari questi hanno pagato complessivamente 18,8 milioni di Euro. Le società che operano in Lombardia, nel 2000, hanno pagato un canone pari a 0,0013 Euro al litro. Sorgenti Monte Bianco Spa, unico concessionario valdostano, ha versato un canone di 0,0010 Euro al litro. In sintesi un litro d’acqua imbottigliato ha per le aziende un costo pressoché virtuale nell’ordine dei millesimi. Per ultimo, ma non in secondo piano, è il consumo d’acqua da parte delle aziende produttrici di bevande gassate. È noto come la diffusione di queste bevande sta “colonizzando” i consumi e le abitudini, specie nei paesi con meno risorse, e soprattutto si sta espandendo nella fasce più disagiate della popolazione, vedi la larga diffusione in America Latina. Per produrre 1/2 litro di Coca Cola sono necessari oltre 150 litri d’acqua. In uno dei report annuali di Coca Cola, presente in 195 paesi con un profitto di 116miliardi di Dollari si afferma che: Noi tutti della famiglia di Coca Cola ci svegliamo ogni mattina sapendo che 5,6miliardi di persone di abitanti della terra quel giorno avrà sete. Se riusciremo a rendere impossibile a quei 5,6miliardi di persone di sfuggire a Coca Cola avremo assicurato il nostro successo futuro per molti anni. Qualsiasi altra opzione non è da prendersi in considerazione”.
In conclusione l’acqua da elemento naturalmente disponibile per tutti si è trasformato in un bene privato, sempre più costoso e sempre più scarso, lo specchio di un rapporto “malato” tra l’uomo e la natura. La questione non è del tutto nuova. Giacomo Leopardi nello Zibaldone, anno 1844, annotava un suo pensiero che ritengo sia di stretta attualità: “la ragione è un lume: la natura vuole essere illuminata dalla ragione non incendiata”. La storia, nei secoli del “progresso” ha assoggettato la ragione al profitto, ha incendiato ed incendia tuttora la natura.
Daniele Ratti